Scritto da museosartarelli
il
28 Ottobre 2020
in Storia
Quella di Gubbio aveva la capacità, e l’ha ancora – però non la utilizzano più – di 20.124 litri. La chiamano la “Botte Grande dei Canonici”. La si può ammirare nelle duecentesche cantine in via Federico da Montefeltro 1, sotto il Museo Diocesano nel palazzo dei canonici della cattedrale.
Maestosa, imponente, realizzata in loco ai primi del Cinquecento da sapienti falegnami che avevano trovato soluzioni particolari per tanta opera. Nelle altre cantine, nelle nostre cantine, le botti erano ovviamente di dimensioni più ridotte, ma sempre ‘regine’ venerate, specie le più capaci, circondate da attenzione e da preoccupazione. Una manutenzione attenta quando contenevano il vino in ebollizione o in maturazione, ma anche quando erano vuote, ché non prendessero cattivi odori, ché nessun intruso (piccoli animali o altro) vi entrasse da clandestino. E poi una preparazione accurata per ospitarvi il mosto: doveva resistere al suo ‘muoversi’ con una tenuta stagna sicura, senza perdite. Cerchi sempre ben tenuti, meglio se verniciati; doghe ripassate all’esterno con il “sego”, grasso di maiale allo scopo preparato e conservato; pulizia interna con il vino magari leggermente caldo dal “rosciolo”, attraverso il quale una volta rimosso, per togliere le fecce, vi poteva entrare un ragazzo; controllo o raschiatura della patina di tartrato, la cosiddetta “rascia”, ed infine il lento bruciare – dopo aver ben chiuso ogni apertura – di uno stoppino o lembo di stoffa intriso nello zolfo fuso. Un rito antico, secolare, tradizionale. Il contadino, se poteva, scandiva – anno dopo anno – l’uso delle sue botti a seconda della “bontà” di ciascuna, della resa cioè qualitativa del vino. Di quercia stagionata erano fatte, da mastri bottai che assommavano al mestiere una sapienza maturata nei secoli. I moderni contenitori supertecnologici, pur avendo qualità eccezionali, non hanno quel velo di poesia di quelle grandi antiche botti. Non ci vogliamo riportare il vino, ma ricordarle “fa bene” anche al vino di oggi.
(12 luglio 2012) – Riccardo Ceccarelli